Vangelo
In quel tempo, 28b Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29 E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30 Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia. 31 Essi erano apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. 32 Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33 Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quel che diceva. 34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!” 36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto (Lc 9, 28b-36).
Lotta e gloria ci sono offerte da Dio
La vita dell’uomo trascorre in una valle di lacrime, nella quale la sofferenza è sempre presente. Per sostenerci nella lotta, Dio ci indica, attraverso grazie sensibili, il grandioso fine al quale siamo destinati.
I – Siamo chiamati “ad maiora”
Formando l’uomo a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1, 26), Dio l’ha destinato a occupare un posto elevato nella creazione, inferiore soltanto a quello degli Angeli. L’essere umano, come unica creatura dotata d’intelligenza in tutto l’universo materiale, possiede una notevole superiorità sulle altre, oltre alla capacità di dominarle, trasformarle e utilizzarle con saggezza, rendendo più perfetta l’opera del Creatore. È Lui il protagonista della Storia, come rileva la Scrittura: “Con la tua sapienza hai formato l’uomo, perché domini sulle creature fatte da te” (Sap 9, 2). Oltre a questa prerogativa di ordine naturale, c’è un altro privilegio che gli conferisce la più eccelsa dignità: la filiazione divina, concessa dal Battesimo. Infatti, ricevendo questo Sacramento, la persona diventa figlia adottiva di Dio, partecipe della natura divina, membro di Cristo, coerede con Lui e tempio della Santissima Trinità.
A causa del peccato originale e dello stato di prova in cui ci troviamo, questi benefici della natura e della grazia ci preparano all’ora in cui ci tocca dar prova di fedeltà a Dio, in modo speciale quando si abbattono su di noi le tentazioni, i drammi e le difficoltà. Se alimenteremo un desiderio sbagliato – magari, subcosciente – facendo sì che la gloria terrena o i piaceri spirituali sensibili diventino una costante nella nostra esistenza, ammetteremo il principio che la vita perfetta è quella della stabilità nella consolazione, senza la minima ombra di sofferenza. Col suo divino esempio, il Signore Gesù ha insegnato come il cammino verso la felicità differisca da quello che concepiremmo in conformità ai criteri umani. In verità, incontriamo la perfetta gioia solo quando abbracciamo la santità, il che implica il varcare la porta stretta e caricarsi sulle spalle la croce, per mezzo della quale si giunge alla luce.
A questo proposito, è legittimo chiederci: come si spiega che nella lotta e nell’affrontare ogni specie di ostacoli, a favore della gloria di Dio, troviamo il senso della nostra vita? O sarà possibile sperimentare in questo mondo una situazione di fruizione completa, proprio come chiedono le nostre inclinazioni? La risposta ci è offerta dalla Liturgia della 2ª Domenica di Quaresima nell’insieme delle sue letture, in un’armonia che si sintetizza nel dirigersi alla beatitudine eterna passando per le difficoltà, per il combattimento spirituale e per il dolore.
La promessa di un grandioso futuro
Nella prima lettura è riferito il momento storico in cui Dio stringe con Abramo un’alleanza, nella quale gli fa grandi promesse. Essendo caduta la notte nei lontani paraggi di Cana, dove aveva posto la sua tenda, il patriarca si era già ritirato quando il Signore lo chiamò fuori a contemplare il firmamento. Questo, limpido, assomigliava a un manto illuminato da un’infinità di astri lucenti (cfr. Gen 15, 5-12.17-18). Tutto ci porta a credere che lì si potesse osservare uno scenario fiabesco, configurato dal Divino Artefice al fine di incorniciare una delle più belle comunicazioni della storia della salvezza. Era il momento in cui Dio riconosceva la rettitudine di Abramo e lo considerava degno di accogliere il suo piano salvifico, per ricevere la fede che sarebbe stata trasmessa a tutta l’umanità. In un dialogo pieno di poesia, Egli promise a quell’uomo avanzato negli anni ciò che le possibilità umane gli avevano negato: discendenza, terra e benedizione.
Sebbene Abramo avesse conservato, nel corso dei decenni, il desiderio di avere eredi e porre fine alle incertezze della vita errante, fu solamente dopo una lunga attesa che Dio decise il compimento di questi aneliti con una sovrabbondanza sopra qualsiasi aspettativa. Il patriarca, nonostante tutte le apparenze contrarie, accettò e credette nella promessa – “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle … Tale sarà la tua discendenza” (Gen 15, 5) –, e ricevette, per quest’atto, una ricompensa molto maggiore di quello che sperava e poteva concepire. “Dio, nel suo modo di promettere, nella certezza che possiede di non deludere mai, rivela la sua grandezza unica: ‘Dio non è un uomo da potersi smentire, non è un figlio dell’uomo da poterSi pentire’ (Nm 23, 19). Per Lui, promettere è già dare, ma in primo luogo è dare la fede capace di sperare che venga il dono; ed è rendere, mediante questa grazia, chi riceve capace dell’azione di grazie (cfr. Rm 2, 20) e di riconoscere, nel dono, il cuore del donatore”.1
Alle anime elette, Dio chiede profferte
A partire da quella notte la condotta di Dio verso Abramo si distinse per una nuova caratteristica: sostenendolo con la promessa, cominciò a chiedergli costanti prove di reciprocità e consegna, con l’intenzione di metterlo alla prova e di modellare la sua esistenza in funzione dell’alleanza: “Cammina davanti a me e sii integro” (Gen 17, 1). In un paradosso da lasciar perplessi, sarebbero trascorsi ancora lunghi anni fino alla nascita di Isacco (cfr. Gen 21, 5), e solo la quarta generazione dei discendenti di Abramo sarebbe tornata a occupare la Terra Promessa (cfr. Gen 15, 16). Tuttavia, anche procedendo in quest’apparente contraddizione, fino a diventare un uomo centenario, egli credette fermamente che la promessa di Dio era ancor più vera dello stesso ottenimento dei frutti sperati: “non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio” (Rm 4, 20). Era indispensabile tale adesione di fondo dell’anima affinché il popolo eletto avesse alle sue origini un atto di fede così eccellente da renderlo degno, nella persona del suo patriarca, della predestinazione che gli era riservata.
La circostanza che segnò l’auge del periodo di prova di Abramo fu l’olocausto di Isacco, poiché la fede maturata deve esser “purificata dalla prova del sacrificio”.2 Intanto, altre offerte lo precedettero, una di loro subito realizzata il giorno seguente alla scena sopra ricordata. Rispettando i costumi di quei tempi, Dio decise che Abramo facesse l’oblazione di diversi animali tagliati in due, con le metà poste le une di fronte alle altre. Il versetto 11 denota un importante aspetto di questo passo e anche dell’insieme delle letture liturgiche di oggi: “Gli uccelli rapaci calavano su quei cadaveri, ma Abramo li scacciava” (Gen 15, 11). La presenza di animali avidi di precipitarsi sulle offerte simbolizza le lotte imposte dalla fedeltà all’alleanza. Per chi abbraccia il cammino della giustizia, subito sorge il nemico infernale a seminare tentazioni e ostacoli, da combattere affinché non rubi il merito delle nostre buone opere. La lotta venne a essere una costante nel percorso del popolo di Israele, un elemento essenziale degli episodi della Storia Sacra, dove non esiste vittoria che non sia ottenuta se non con la battaglia. Dio Si compiacque della fermezza di Abramo, poiché fece passare tra le vittime una fiamma e una torcia – simboli, nell’Antico Testamento, della sua presenza3 –, in segno di accettazione dell’offerta. Questo combattimento, come vedremo, si estende anche al Nuovo Testamento e chiede ai cristiani una vigilanza che “deve esercitarsi giorno dopo giorno nella lotta contro il maligno; esige dal discepolo orazione e sobrietà continua”.4
Il combattimento dell’Apostolo contro i falsi convertiti
La seconda lettura (cfr. Fil 3, 17-21; 4, 1) raccoglie un importante passo della lettera di San Paolo ai filippesi, nella cui comunità alcuni giudei, da poco convertiti, si mantenevano ancora vincolati alle tradizioni e concezioni proprie del culto antico, diffondendo dottrine errate con l’obiettivo di fare quello che ben possiamo qualificare come pseudo apostolato antipaolino. Mentre San Paolo predicava il Redentore, la Buona Novella, i Sacramenti e le meraviglie della grazia, i giudaizzanti volevano, a ogni costo, far prevalere i costumi mosaici: “Essi si occupano di esercitare la loro inimicizia contro la Croce di Cristo, affermando che nessuno può salvarsi se non per mezzo dell’osservanza delle leggi, e con questo riducono a nulla il potere ‘della Croce di Cristo’”.5 Uno dei motivi che portò l’Apostolo a redigere questa lettera fu la necessità di mettere in guardia contro tale corrente nefanda, intenzione molto percettibile nei versetti oggi considerati: “Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della Croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra” (Fil 3, 17-19).
Di fronte ai nocivi insegnamenti dei giudaizzanti, San Paolo non esita a porsi come esempio per coloro che aveva condotto al Salvatore, rimproverandoli, con autorità, per il fatto di seguire altri che non sono stati chiamati a essere un modello nella pratica della Fede. Le sue parole denotano la sofferenza e l’indignazione causate dalla controversia, al punto che gli scorrevano le lacrime sul volto mentre scriveva. La reazione è comprensibile in una persona dal temperamento così focoso, impedita dalle circostanze ad agire personalmente con l’efficacia desiderata, e che percepisce quanto l’astuzia dei malvagi metta a rischio la perseveranza dei buoni.
Per questo, egli non vacilla neppure denunciando gli ipocriti che, per stima delle tradizioni antiche, insistevano nel mero culto esteriore già estinto, mentre disdegnavano la vita della grazia. È importante rilevare che San Paolo, indicando la divinizzazione dello stomaco da loro propugnata, non si riferisce al vizio della gola, ma all’attaccamento che avevano alla Legge mosaica e ai costumi farisaici a questo riguardo. Afferma che il loro dio è il ventre perché la pratica religiosa di questi giudaizzanti si riassumeva nel controllo di tutto quanto potesse esser ingerito e la loro gloria in quello che è vergognoso, perché concedevano la primazia alla circoncisione, un tempo segnale precursore della fede nella Passione di Cristo e ormai a quel tempo una prescrizione abolita. Praticando con esagerato rigorismo tali costumi, si sentivano non obbligati a purificare il loro intimo, nel frattempo tanto corrotto. Il linguaggio utilizzato da San Paolo è estremamente audace, poiché affronta quelli che si vanagloriavano dei loro otri vecchi, al punto da fargli strappare le vesti e da diventare, ai loro occhi, meritevole di un odio di morte.
La speranza della vita eterna
“La nostra patria invece è nei Cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo Corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a Sé tutte le cose” (Fil 3, 20-21). Dopo aver inveito contro le deviazioni disseminate con tanta astuzia, denunciando la malizia dei falsi convertiti, San Paolo offre una vera sintesi della Liturgia di oggi ricordando l’appello ai battezzati a essere cittadini del Cielo. Ecco qui una realizzazione insuperabile – e forse nemmeno concepita dallo stesso Abramo – della promessa fatta da Dio: discendenza numerosa, terra e benedizione. Tali beni sono effimeri se comparati all’eterna beatitudine e al corpo glorioso che, lasciandosi dietro la contingenza della nostra natura mortale, assumerà le caratteristiche della gloria. L’Apostolo s’impegna a elevare le mire di quella comunità alla ricompensa che l’aspetta, certo che, fissandola nella speranza di beni maggiori, avrebbe creato le condizioni perché non si contaminasse con l’influenza dei perversi.
Con tale intento egli consegna la dottrina dei corpi gloriosi, materia ampiamente trattata nei suoi scritti. Parla del nostro corpo umiliato dagli effetti del peccato originale e indica la trasformazione cui sarà sottoposto quando, una volta resuscitato, sarà riunito all’anima che si troverà nella visione beatifica, avendo acquisito la pienezza della libertà e l’impossibilità di peccare e diventando esente dalle inclinazioni al male. Infatti, questo stato di massima perfezione spirituale è all’origine della sublimazione del nostro essere materiale, come insegna San Tommaso: “Secondo la relazione naturale che c’è tra l’anima e il corpo, dalla gloria dell’anima ridonda la gloria sul corpo”.6 Divinizzandosi, l’anima non si adatta più a un corpo sofferente, perché ha raggiunto il termine ultimo della vita della grazia: la gloria.
L’inizio della vita soprannaturale ci è dato dalla fede, che ci porta a credere in quello che non vediamo, e dalla speranza, che ci porta a desiderare quello che ancora non possediamo, ma un giorno riceveremo. Ora, la gloria è la realizzazione dell’oggetto della fede e l’ottenimento dell’oggetto della speranza, come ricorda padre Garrigou-Lagrange: “Se lo stesso Dio, che è il Bene infinito, Si manifestasse a noi, immediatamente e chiaramente faccia a faccia, non potremmo non amarLo. Egli riempirebbe interamente la nostra capacità affettiva, che sarebbe attratta da Lui in modo irresistibile. Essa non conserverebbe nessuna energia che si sottraesse alla sua attrazione; non potrebbe trovare nessun motivo per allontanarsi da Lui o persino per sospendere il suo atto d’amore. È la ragione per la quale chi vede Dio faccia a faccia non può più peccare. […] Solo Dio, visto faccia a faccia, può attrarre invincibilmente la nostra volontà”.7
In questa situazione il corpo diventa glorioso perché accompagna l’anima, poiché non può essere inferiore alla sua felicità, oltre ad assumere le quattro caratteristiche enunciate dal Dottor Angelico: chiarezza, impassibilità, agilità e acutezza.8 La prima riflette nel corpo la luce della visione beatifica, rendendolo folgorante in virtù della chiarezza della quale gode lo spirito. L’impassibilità riguarda l’immortalità e l’esenzione da qualsiasi dolore, poiché il corpo diventa oggetto solo del benessere, come frutto della sua perfetta sottomissione all’anima: “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (Ap 21, 4). Alla fine, l’agilità e l’acutezza confermano la supremazia dello spirito sulla materia, una volta che i corpi dei santi non saranno più soggetti alle presenti contingenze o agli effetti fisici imposti dagli altri corpi. Potranno muoversi con massima rapidità e superare gli ostacoli con ogni facilità.9
Afferma Sant’Agostino che “la natura, ferita dal peccato, genera i cittadini della città terrena, e la grazia, che libera dal peccato, genera i cittadini della città celeste”.10 La seconda lettura, in ugual maniera, conferma l’indispensabilità della grazia per l’ottenimento della vita eterna e si centra – come anche la prima – nella necessità di avere gli occhi fissati al Cielo, con un’intera fiducia nella realizzazione delle promesse fatte da Dio. Entrambi i passi costituiscono un adeguato preambolo al messaggio del Vangelo, la cui insuperabile grandezza passeremo ora a considerare.
II – Promessa, fede e lotta
Nel corso di tutto il periodo della vita pubblica di Nostro Signore trascorso fino all’episodio narrato in questo Vangelo, gli Apostoli erano abituati a vederLo realizzare i più incantevoli miracoli. Tali prodigi attestavano, in forma chiara, la divinità di Cristo,11 e la sua onnipotenza sarebbe stata manifestata ancora con maggior splendore nell’istituzione dell’Eucaristia. Allo stesso tempo, Egli aveva appena rivelato la sua prossima Passione, che avrebbe portato una terribile prova: dopo essersi comunicati per la prima volta, gli Apostoli Lo avrebbero visto catturato, giudicato, flagellato, coronato di spine, gravato dal peso della Croce e crocifisso. Come sarebbe stato possibile per i più prossimi seguaci del Divino Maestro, presenziando questi patimenti, continuare a credere nella resurrezione il terzo giorno? Cosa avrebbe fatto Lui, nella sua infinita saggezza, per mantenere accesa la fede dei Dodici nella tormenta che già si delineava all’orizzonte?
Gesù rivela nel Corpo la gloria della sua Anima
In quel tempo, 28b Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29 E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
Al fine di prepararli per gli avvenimenti che sarebbero imminenti, Nostro Signore chiamò i tre Apostoli con cui aveva maggior familiarità e li condusse al Monte Tabor. Essi, poi, avrebbero dovuto fortificare gli altri, narrando loro quello di cui erano stati testimoni.
Sebbene la preghiera occupi un posto privilegiato nella vita del Maestro, essa non fu il suo unico obiettivo con la salita alla montagna. Piuttosto, intendeva mostrare chi realmente era, come rileva Maldonado: “Cristo aveva l’abitudine di salire sui monti per pregare, dove la solitudine è maggiore e più libera è la contemplazione del Cielo. Non si deve pertanto concludere dalle parole di Luca, che Cristo salì solo col proposito di pregare, ma che, in base alla sua abitudine di pregare nelle questioni ardue, abbia voluto farlo questa volta prima di manifestare la sua gloria. […] Non dimentichiamo, anche, che nella maggioranza dei casi la gloria di Dio si manifesta sui monti, che sono più prossimi al Cielo e più lontani dalla Terra, e non nelle valli”.12
Questa esteriorizzazione della gloria divina è un fenomeno che rivela il vero stato dell’Anima di Gesù, la quale, creata nella visione beatifica, possedeva fin dal primo momento dell’Incarnazione il grado supremo della grazia capitale. Questa è così denominata poiché Egli è il capo del Corpo Mistico e l’origine della grazia di cui vive la Chiesa.13 La sua Anima è stata sempre nella contemplazione di Dio faccia a faccia14 e, per questo, la cosa normale sarebbe che il suo Corpo fosse visto abitualmente in stato glorioso, come uno specchio della beatitudine del suo spirito, tale come si manifestò sul Tabor, alla vista di San Pietro e dei figli di Zebedeo.15 Fu solo per amore a noi che Nostro Signore volle rivestirSi delle caratteristiche del corpo sofferente per operare la Redenzione.16 Allora, da un certo punto di vista, il verbo trasfigurare non definisce con esattezza quello che si è verificato, poiché, in verità, Cristo fece cessare la sottofigura che aveva.
Per quanto riguarda alcuni altri momenti della sua vita pubblica, possiamo supporre che Egli assunse soltanto alcuni degli attributi del corpo glorioso, come, per esempio, quando uscì liberamente tra coloro che lo volevano gettare dal precipizio a Nazaret o quando camminò sulle acque del Mare di Tiberiade.17
Mosè ed Elia ratificano la Passione
30 Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia. 31 Essi erano apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme.
Stavano partecipando alla gloria di Cristo due esponenti del popolo eletto: Mosè ed Elia, i massimi rappresentanti della Legge e dei profeti. Essi furono i prescelti perché “né la Legge può esistere senza il Verbo, né profeta alcuno potrebbe aver vaticinato qualcosa che non si riferisse al Figlio di Dio”.18 Entrambi non solo ratificano che Gesù è il Messia, ma danno il peso della loro testimonianza anche agli annunci della Passione. La conversazione intrattenuta con Lui riguarda la sua morte e, tuttavia, i tre si trovavano avvolti nella gloria, che rivela il fine ultimo: resurrezione e corpo glorioso. “La conversazione di Gesù con Mosè ed Elia verte esattamente sui tormenti che presto Cristo avrebbe patito a Gerusalemme. La Trasfigurazione, pertanto, è la consacrazione di Gesù alla Croce e alla morte”.19 In un’armoniosa giunzione, concepibile soltanto dall’intelligenza di Dio stesso, si uniscono in quest’episodio dolore e gloria, come ricorda San Leone Magno: “Era necessario che gli Apostoli avessero nel cuore una nozione chiara di questa vigorosa e beata fortezza, e che non tremassero davanti alla rudezza della croce che avrebbero portato; era necessario che non si vergognassero del supplizio di Cristo, né considerassero umiliante per Lui la pazienza con cui avrebbe dovuto patire i rigori della sua Passione, senza perdere la gloria del suo potere”.20
La tentazione di una vita senza sforzo
32 Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33 Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quel che diceva.
Presi dal torpore – particolare sorprendente –, i tre testimoni stavano dormendo all’inizio della divina manifestazione. Tale sonno è simbolico, poiché quando ci troviamo di fronte alla croce, allo sforzo e al sacrificio, siamo sempre presi dal tedio, in conseguenza della nostra debole natura umana. Questo successe anche, più tardi, nell’Orto degli Olivi, quando i tre cedettero alla stanchezza, nell’imminenza della Passione, lasciando Nostro Signore solo di fronte alla sofferenza (cfr. Mt 26, 40). Svegliati inaspettatamente, ancora sotto gli effetti del sonno e sorpresi per l’intensa luminosità che avevano di fronte a sé, rimasero incantati, al punto che San Pietro non ebbe una reazione all’altezza di quello che stava succedendo. In realtà, con le sue parole egli manifestava, forse senza piena coscienza, una certa cattiva tendenza di fondo dell’anima. Incantato nel vedere quella meraviglia, subito volle approfittarne, manifestando il desiderio di vivere ininterrottamente sotto l’influsso della gloria del Maestro. Egli vedeva nel beneficio di questo piacere l’ottenimento della felicità, e se non chiese di fare tre tende quando il Signore annunciò la Passione, non esitò a farlo in quel momento. Pietro immaginava di essere già arrivato alla fine del buon combattimento, quando c’era ancora un lungo cammino da percorrere. Vedeva forse, nella presenza di due uomini della statura di Mosè ed Elia, quanto facile sarebbe stato dotare di supremazia il popolo Giudeo sopra tutte le altre nazioni della Terra. Mancava al capo della Chiesa apprendere che, prima dell’ottenimento dei frutti della promessa, si deve percorrere la via che a loro conduce, in base all’esempio dato dal Redentore.
Anche il Padre convoca alla lotta
34 Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35 E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”36 Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Dentro la nube si ode la voce del Padre, che ordina di ascoltare il suo beneamato Figlio. Che cosa voleva che sentissero? Quelle predizioni che tanto desideravano dimenticare. Nostro Signore aveva dichiarato che sarebbe stato consegnato nelle mani dei sacerdoti, degli scribi, dei farisei, che avrebbe sofferto e sarebbe stato ucciso per poi resuscitare il terzo giorno (cfr. Mt 16, 21; Lc 9, 22). Essi avevano paura di pensare a questo, condizionati da una visione umana di Cristo. In questo senso rileva Romano Guardini: “Leggendo i Vangeli, cogliamo l’impressione che i discepoli non avessero compreso durante la vita del loro Maestro quello che era in causa. Gesù non aveva in loro un gruppo di uomini che veramente Lo comprendesse; che vedessero chi Lui era e intendessero quello che Lui voleva. Sorgono continuamente situazioni che ci mostrano come rimaneva solo in mezzo a loro. […] Li vediamo in tal maniera immersi nelle rappresentazioni messianiche dell’epoca che, nell’ultimo momento precedente all’Ascensione […], chiedono ancora ‘se è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele!’ (At 1, 6)”.21 Il Padre, ordinando che ascoltassero il Figlio in tutto, li incita a considerare l’ardua realtà della Croce; a seguire il suo Prescelto in base a quello che era, e non secondo quello che avrebbero voluto che fosse.
Conclusa la portentosa visione, Gesù rimase in preghiera tutta la notte e scese il giorno seguente, accompagnato dai tre Apostoli. Il silenzio mantenuto nel tragitto di ritorno denota il grande impatto causato dalla Trasfigurazione, poiché qualsiasi commento a proposito di quello che avevano visto sarebbe stato inadeguato. È opportuno ricordare che, non appena fecero ritorno, s’imbatterono in un bambino posseduto, sul quale Egli fece un esorcismo che ottenne un’immensa ripercussione (cfr. Mt 17, 14-20; Mc 9, 14-29; Lc 9, 37-42). Dopo quella grande esperienza mistica, Nostro Signore riprese le sue attività di apostolato, volendo mostrare il senso più profondo di quello che era successo. Infatti, una grazia di così straordinaria portata fu una preparazione alle lotte future.
III – Le consolazioni ci sostengono per la vittoria finale
La Liturgia di questa domenica, ricordando la promessa fatta ad Abramo, le parole di San Paolo e la scena della Trasfigurazione, ci insegna che le grazie mistiche che riceviamo nel corso della vita spirituale non ci sono date con la finalità di stabilire un’esistenza gradevole su questa Terra, nella quale vorremmo montare una tenda per rimanere in estatica contemplazione. Esse ci sono date affinché, attraverso queste, abbiamo la forza di affrontare i conflitti della vita in vista del fine al quale siamo stati chiamati. In verità, la via mistica è una prefigurazione della beatitudine eterna, e non un piacere della vita terrena. La felicità in questo mondo deriva dalla lotta contro il male esistente dentro e fuori di noi e, soprattutto, dalla lotta per la gloria di Dio, in modo che queste consolazioni ci sono offerte per alimentare la virtù della speranza.
Mettendo in risalto l’importanza di tali grazie, il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira afferma che esse “sono una specie di preannuncio della visione beatifica nel Cielo, e fanno sì che le nostre anime diventino molto più aperte alla comprensione soprannaturale, alla comprensione del meraviglioso, al desiderio delle grandi cose, dei grandi fatti, dei grandi frangenti”.22 Per questa ragione, stiamo attenti alle manifestazioni divine nella nostra vita, dissipando qualsiasi torpore che ci impedisca di percepirle e crescendo nella certezza che, dopo le lotte passeggere della vita terrena, ci attendono le gioie della comunione eterna con Dio, alla quale siamo stati chiamati. Nel Cielo, dove non sarà necessario porre tende, la nostra dimora è preparata dal Divino Maestro per far durare eternamente la gioia della sua splendida Trasfigurazione!
1) RAMLOT, OP, Marie-Léon; GUILLET, SJ, Jacques. Promesas.
In: LÉONDUFOUR, SJ, Xavier (Org.). Vocabulario de teología bíblica.
Barcelona: Herder, 1996, p.731.
2) CCC 1819.
3) Cfr. COLUNGA, OP, Alberto; GARCÍA CORDERO, OP, Maximiliano.
Biblia Comentada. Pentateuco. Madrid: BAC, 1960, v.I, p.192.
4) MOLLAT, SJ, Donatien. Velar. In: LÉON-DUFOUR, op. cit., p.925.
5) SAN TOMMASO D’AQUINO. Epistolam Sancti Pauli Apostoli ad
Philippenses expositio. C.III, lect.3.
6) SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. III, q.14, a.1, ad 2.
7) GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald. L’Éternelle vie et la profondeur
de l’âme. Paris: Desclée de Brouwer, 1953, p.25.
8) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. In Symbolum Apostolorum. Art.11.
9) Cfr. GARRIGOU-LAGRANGE, op. cit., p.332-333.
10) SANT’AGOSTINO. De Civitate Dei. L.XV, c.2.
In: Obras Madrid: BAC, 1958, v.XVI-XVII, p.998.
11) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. III, q.43, a.4.
12) MALDONADO, SJ. Juan de. Comentarios a los Cuatro Evangelios.
Evangelio de San Mateo. Madrid: BAC, 1950, v.I, p.607-608.
13) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO. Somma Teologica. III, q.8, a.1.
14) Cfr. Idem, q.9, a.2.
15) Cfr. Idem, q.45, a.2.
16) Cfr. Idem, q.14, a.1, ad 2.
17) Cfr. Idem, q.45, a.1, ad 3.
18) SANT’AMBROGIO. Tratado sobre el Evangelio de San Lucas.
L.VII, n.10. In: Obras. Madrid: BAC, 1966, v.I, p.350.
19) FILLION, Louis-Claude. Vida de Nuestro Señor Jesucristo.
Vida pública. Madrid: Rialp, 2000, v.II, p.286.
20) SAN LEONE MAGNO. Hom. Sabb. ante II Dom. Quadr.
Sur la Transfiguration, hom.38 [LI] n.2. In: Sermons.
Paris: Du Cerf, 1961, v.III, p.16.
21) GUARDINI, Romano. O Senhor. Lisboa: Agir, 1964, p.70-71.
22) CORRÊA DE OLIVEIRA, Plinio. Conferenza. São Paulo, 19 nov. 1989.
Estratto dalla collezione “L’inedito sui Vangeli” di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP.
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